GIALLO
Accendeva il fuoco perché gli piaceva, e mi ha insegnato a farlo. Accendeva il fuoco perché, credo, riusciva a concentrarsi davanti la fiamma. La fissava e pensava. Pensava ai suoi fascicoli d’udienza, pensava ai documenti antichi, all’odore che trasuda dalla carta vecchia di secoli, pensava alle nostre querce, agli ulivi, ai pioppi che aveva deciso di piantare. Poi c’erano gli alberi di melo, sei varietà diverse, un altro anno ancora, prima di raccoglierne i frutti, e quelli di fico che, per tutta l’estate, aveva controllato. Ora solo lì, continuano a crescere. Era necessario ancora del tempo.
Ho ritrovato una chiave. È la chiave della sua macchina, quella che ti danno perché pare che le macchine debbano avere una doppia chiave, così si è tranquilli quando se ne perde una. Così si è di nuovo agitati quando la si trova, e tutte le immagini di quella macchina schiacciata, con lui dentro, riappaiono chiare. Stretta nella mano. Che ragione c’era di avere una seconda chiave?
Mi hanno detto di tornare a scrivere, come quando c’era tempo per farlo, per raccontare fiabe che poi si avveravano, di luoghi calpestati, di scatti rubati, con la magia delle parole a costruire pensieri, ad incastrarle di nuovo nelle frasi, a riempirle e colorarle. Visto che neanche per le parole era più il momento giusto, svuotate e scolorite, incapaci di parlare.
Ho urlato il dolore in silenzio, mi è mancato il respiro, con quel segno di punteggiatura che racconta la fine. Mi manchi più dell’aria. E poi ho letto di occhi pronti a leggere ancora.
Torno a cercare il vento, ad ascoltarne la voce, a guardare la Stella, a puntarla col dito, a rimproverarla per essersi accesa, ad implorarla di non spegnersi.
Mi hanno detto di non piangere. È come chiedermi di non portare più il mio nome.