Partire tornare ... ripartire ritornare ... in un continuo inarrestabile viaggiare

29 gennaio 2008

PIOGGIA ROMANA

Il cielo è coperto. La voglia di pioggia assente. A volte mi capita di volerla la pioggia, di invocarla quando vedo la terra arsa che ha sete, di desiderarla quando ricordo il profumo che si lascia dietro un acquazzone d’estate, di chiamarla quando mi manca il rumore dell’acqua sulla strada.
Roma, un martedì mattina in Via del Corso. Il cielo è coperto. Le prime gocce fanno timidamente capolino tra le nuvole. E tutti insieme, per nulla timidamente, sono apparsi i venditori ambulanti di ombrelli. Loro sì che la vogliono la pioggia un martedì mattina a Roma, con cielo coperto. Le gocce da due sono diventate quattro e poi otto, raddoppiando all’infinito il loro numero. Smetterà, che vuoi che facciano sessantaquattro gocce.
Ombrello? No. Ombrello? No.
Resisto, entro in un altro negozio, uno di quelli di estrazione spagnola che hanno invaso il mondo, dove puoi guardare, toccare, provare, comprare, cambiare, indisturbata. All’uscita le gocce sono ottomilacentonovantadue, e l’indiano, diverso ma uguale, è davanti a me.
Ombrello?
Me lo dici come fate voi ad essere pronti con gli ombrelli alle prime gocce dal cielo?
He he, leggere giornale. Che domanda cretina, deve aver pensato. Comprare ombrello?
No. Perché doveva averla vinta lui.
Non lo vedi che piove?
E mi sono beccata il secondo implicito insulto.
Quanto costa?
Cinque euro.
Cinque euro?! Troppo. Che fai non tratti? Che faccio, non tratto? Tratto. Sempre. Con la consapevolezza che il margine tra il suo primo prezzo e quello che pagherò è nullo. Le gocce sono ormai sedicimilatrecentottantaquattro.
Tu sei ricca.
Io? Ma se non ho un lavoro fisso.
È ricco tuo marito.
Non ce l’ho un marito, guarda la mia mano, non sono sposata.
Dai, compra ombrello, quale ti piace?
Il giallo. Voglio l’ombrello giallo, ci sto buttando sù cinque euro, su un ombrello la cui struttura prende per bora uno spiffero d’aria, almeno deve vedersi! Lo saluto.
Ciao e, trova marito.

Piove a Roma, un martedì mattina in Via del Corso. Mi ha convinta. A comprare un ombrello! Le gocce sono sessantacinquemilacinquecentotrentasei.

21 gennaio 2008

IN ALTO

Magico inverno, fatto di silenzi, di aria tersa che si respira ad ogni passo, di luce riflessa, di ombre fedeli, di orme sui sentieri.
Sensazioni dietro l’angolo.
Ferma di fronte al non colore. Mi chiedo cosa ne sapevo io di questo mondo. Penso agli alberi mossi dal vento di Capo Verde, alle montagne marocchine dell’Atlantide, ai luoghi lontani, ai viaggi che fanno notizia. Penso che esiste un mondo minore, un pezzo d’Italia vicino casa di meraviglie pudiche, che non si mostrano, che hanno paura di scoprirsi, che temono il clamore, che forse, nel più profondo della loro anima, amano essere ignorate.
Un viaggio breve, un non viaggio, un viaggio che ti sposta di poco, neanche cento chilometri sulla strada, molti meno in linea d’aria. Un viaggio verso un paesaggio. Era sempre stato questo. Un paesaggio visto dal basso, una cartolina indicata da un dito, una terra che è la tua terra perché te lo impone la geopolitica, una terra che sarebbe da sciocchi continuare ad ignorare, una terra che si è lasciata conquistare, una terra che è, ora, diversamente tua.
Sono entrata nei boschi ricolmi di neve. Ho creduto, in uno dei percorsi contorti della mia mente, che iniziare l’anno a meno dodici aveva un suo affascinante significato. Era come rendere la sfida più avvincente. Ho creduto che la prima volta sulle piste di fondo, fosse come tornare ad imparare a camminare. Ho scoperto che mi piaceva scivolare lungo i binari tracciati sui sentieri e guardare avanti. Ho capito che posso andare lontano senza muovermi. So, con certezza, che ci sono miliardi di cose che voglio ancora fare.
Continuo a sorridere quando penso al nome buffo della località. Ne cerco l’origine vera o presunta nella transumanza dei pastori, nel loro mangiare quotidiano.
Altitudine 1400 metri.
È sulla mia testa, lo è sempre stato, questo mondo d’altura che mi resta nel cuore.