Partire tornare ... ripartire ritornare ... in un continuo inarrestabile viaggiare

25 gennaio 2010

GIALLO

Quando era inverno, mi teneva sulle sue gambe davanti il caminetto. Avevo freddo, si capiva dal mio naso gelato e lui, allora, cominciava ad accarezzarmelo per scaldarlo.
Accendeva il fuoco perché gli piaceva, e mi ha insegnato a farlo. Accendeva il fuoco perché, credo, riusciva a concentrarsi davanti la fiamma. La fissava e pensava. Pensava ai suoi fascicoli d’udienza, pensava ai documenti antichi, all’odore che trasuda dalla carta vecchia di secoli, pensava alle nostre querce, agli ulivi, ai pioppi che aveva deciso di piantare. Poi c’erano gli alberi di melo, sei varietà diverse, un altro anno ancora, prima di raccoglierne i frutti, e quelli di fico che, per tutta l’estate, aveva controllato. Ora solo lì, continuano a crescere. Era necessario ancora del tempo.
Ho ritrovato una chiave. È la chiave della sua macchina, quella che ti danno perché pare che le macchine debbano avere una doppia chiave, così si è tranquilli quando se ne perde una. Così si è di nuovo agitati quando la si trova, e tutte le immagini di quella macchina schiacciata, con lui dentro, riappaiono chiare. Stretta nella mano. Che ragione c’era di avere una seconda chiave?
Mi hanno detto di tornare a scrivere, come quando c’era tempo per farlo, per raccontare fiabe che poi si avveravano, di luoghi calpestati, di scatti rubati, con la magia delle parole a costruire pensieri, ad incastrarle di nuovo nelle frasi, a riempirle e colorarle. Visto che neanche per le parole era più il momento giusto, svuotate e scolorite, incapaci di parlare.
Ho urlato il dolore in silenzio, mi è mancato il respiro, con quel segno di punteggiatura che racconta la fine. Mi manchi più dell’aria. E poi ho letto di occhi pronti a leggere ancora.
Torno a cercare il vento, ad ascoltarne la voce, a guardare la Stella, a puntarla col dito, a rimproverarla per essersi accesa, ad implorarla di non spegnersi.

Mi hanno detto di non piangere. È come chiedermi di non portare più il mio nome.

23 settembre 2009

PESCATORI

La signora Pina aveva dato istruzioni precise: camminare dritti lungo il mare, assolutamente non andare verso le Poste.
Quell’indicazione così categorica, sarebbe apparsa superflua già al primo giro dell’isoletta. Poche strade che svoltavano tutte intorno alle case dei pescatori e che, tutte, portavano a tutto.
La signora Pina l’avevamo immaginata quasi così com’era, le avevamo dato un’età e un aspetto. Avevamo capito da subito che avrebbe controllato ogni nostro movimento, che avrebbe suggerito con disinvoltura cosa fare, dove mangiare e di chi fidarsi, che avrebbe lei dettato le regole, avevamo capito, insomma, che la sua casa non era un albergo.
Il primo errore lo avevamo già commesso, non dirle l’orario d’arrivo e lei, che si era sentita responsabile di tutti noi fin dal primo contatto, aveva chiamato allarmata chiedendo che fine avessimo fatto. Rassicurata aveva però continuato a non capire il perchè della nostra scelta: arrivare di sera nel suo isolotto e, quindi, buttare via l’intera giornata di vacanza.
Il secondo errore era arrivato il giorno dopo. La sensazione era che la signora Pina ci avesse quasi teso un tranello, per metterci alla prova. E ci eravamo cascati: confondere Rocco con Pietro. Proprio Rocco, e poi con Pietro, il pescatore che aveva qualcosa in più.
Faceva vedere i tramonti. Faceva vedere il rosso nel blu, il rosso del sole nel blu di Marettimo.

21 luglio 2009

PISTACCHIO


Catania. Non ricordavo neppure di esserci stata. Alcuni anni fa, un giro veloce in macchina, talmente veloce da averlo rimosso dalla memoria. Tornarci ed accorgersi di averle già viste, le piazze, le strade, le chiese. Fermarsi a cercare nei pensieri, rivedere lentamente quel giro veloce.
Ora è diverso. Non c’è fretta e c’è tempo di camminare. Perché sono sempre, ed ancora, solo i passi a lasciarti dentro un posto.
Vicoli stretti, vecchie case, balconi barocchi nascosti, facciate imponenti. Lo storico Nievski attaccato all’albergo. Gli odori intensi della Pescheria, poco distanti. L’Elefante vestito a giorno e poi illuminato di notte.
Cammino in mezzo ad una strada nera. Di fronte, sempre dritto, il Vulcano. Sotto, le suole delle scarpe sono nere.
Via Etnea deserta, scotta di lava. Gelato al pistacchio.

10 aprile 2009

MOTO


La roccia, la pietra di questa terra, assemblata a disegnare case, a contenere vite, ad indicare il tempo. Borghi arroccati, aggrappati alle montagne, seguono forme naturali, lasciano il segno dell’uomo, della sua arte geniale.
Sono i presepi della notte, macchie di luce nel buio sparse sui monti. Vicini, tanto vicini da vedere il Gran Sasso. Uguali, tanto uguali da capirne la paura.
Trema la terra, trema e ti lascia indifeso, trema e ti toglie il sonno, trema e ti strappa la vita.
Stanotte si ricomincia con strade deserte e case crollate. Poi la luna piena e il cielo stellato. Ma non è sereno.
L’uomo è fermo, avrebbe voluto accorgersi che nulla fosse accaduto. Piange. Chiama. Urla. Non rispondono che macerie e morti. La furia ingigantita dall’oscurità.
Ma forse il fragore è stato davvero un incubo, un’allucinazione, adesso l’uomo si sveglia e, di nuovo, torna la stessa macchia di luce nel buio.
No. È certezza.
A quell’ora solo piedi che si muovono scappando, braccia chiuse ad abbracciare corpi, mani tese a farsi strada, occhi che guardano l’orrore.
Terremoto. Moto terreno che è ingestibile per non capirne nulla.
Si muovono le cose e non è il vento.

17 febbraio 2009

MASCHERE

Era Roma. Era inverno. Era Picasso. Le linee curve e gli spigoli.
È Carnevale. È colore. È Arlecchino, immaginato e reinventato, scomposto e ricomposto, esplosivo e discreto.
Era l'Arlecchino dell'arte al Vittoriano, tra disegni, dipinti e sculture, l’Arlecchino cubista che suona musica.
Strade piene di maschere, bimbi truccati e camuffati, perplessi nei buffi vestiti. Maschere vere, quelle che non si indossano per ingannare, maschere che devono rendere poliedrici ma lasciare sinceri, eterogenei senza essere finti.
L'Arlecchino continua a suonare note di colori sgargianti. Tutto blu, tutto verde, tutto giallo, tutto arancio, tutto bianco, tutto grigio, tutto lavanda, tutto mischiato. Lontano Guernica e le corride sanguinose, con le lacrime nere che si avvicinano.
Torna Arlecchino, resta colorato in un paese di bimbi che sorridono. Burlone nelle favole, buffone tra saltimbanchi e acrobati, stravagante tra la gente. Rattoppi con pezzi di stoffe diverse tra loro che si compongono in abito.
Variopinto il mio mondo, sotto l’acqua della doccia a giocare con la fantasia.

13 gennaio 2009

CIASPOLE

Un mattino d’inverno. Sulla neve il sole crea un gioco di luci, piccoli cristalli che si illuminano ad intermittenza, un immenso strato bianco che incontra il calore e incomincia a brillare.
A terra le orme di volpi e leprotti. In ordine lineare. Poi a mischiarsi quelle degli uomini, irregolari, incapaci di muoversi l’uno dietro l’altro. Si spostano segnando ognuno un suo percorso, ed ecco i solchi delle ciaspole accanto alle linee degli sci da fondo.
Fanno rumore le ciaspole sulla neve. Un rumore silenzioso che si unisce allo stridere dell’abbigliamento, in un ritmo preciso, a scandire il tempo di una camminata che resta comunque disordinata e buffa. È la posizione delle gambe a cui ti costringono le ciaspole.

Si mischia allora l’ordine al disordine, di nuovo. Il rigore del ritmo e la confusione delle tracce.
Vedo le piste camminando, e vedo i miei passi. Quando, ciaspolando, segui un sentiero, non devi mai dimenticare di fermarti a guardare indietro.
Lontano le curve delle cime innevate, belle come l’anno scorso e sempre capaci di incantare. Ancora una volta gli occhi a riempirsi di mondo, a impararlo a memoria questo orizzonte molisano che, più di ogni altro, mi appartiene.

24 dicembre 2008

BUON NATALE VERO

08 dicembre 2008

INTRECCI MENTALI

I luoghi si somigliano un po’ tutti. E se anche, a volte, dovesse mancare una qualche similitudine, riesci a trovarla, a convincerti che ci sia, ad inventarla. È il gioco bizzarro della mente che pesca tra gli oggetti, che li lascia stare dove non dovrebbero, per farti sentire protetta, al sicuro, per lasciarti tranquilla in un posto che, d’istinto, senti lontano da te; che li risposta quando hai imparato a conoscere, quando quelle cose, piazzate lì, non ti servono più.
Ci sono gli alberi, nel punto in cui il fiume corre a baciare il mare, dopo essersi buttato giù dalla gola, trascinato dalla corrente, come un innamorato che scappa frettoloso verso l’amore.
Stoffe colorate impigliate tra i rami. I ragazzi sotto a suonare chitarre, intrecciare collane, ad esibire la loro scelta di vita. E tu che fai volare gli aquiloni di quand’eri bambina, le strisce di carta dipinte che ballano nel cielo, che inseguono gli uccelli. Gli aquiloni si mescolano alle stoffe.
Qui nessuno ha fretta. Qui, dove il lento brucare delle caprette a pochi passi di distanza da te, ti lascia sognare ad occhi aperti di un mondo completo, con mare e montagna attaccati.
È il gioco bizzarro della mente, ancora. Forse.

Così il viaggiatore voltò le spalle all’isola, continuando a guardarla attraverso i ricordi. L’aereo decollò di sera, tra le luci accese della città, sempre più piccole e lontane, con le caprette in alto nel cielo e gli aquiloni aggrappati alle rocce sul mare.

18 novembre 2008

ETERNAMENTE

Il sole d’autunno riscalda solo se lo vai a cercare. Poi c’è la pioggia e, quando il sole torna, fa fatica a riprendersi il suo posto. L’acqua resta lì, a lungo, a mantenere bagnate le strade, a gocciolare dai balconi, a riflettere i palazzi.
Ho girato nell’isola accompagnata da un sole caldo, che restava a farti compagnia fino a sera, per ricomparire presto l’indomani. Niente pioggia.
Il rumore d’autunno è attutito dal buio.
Lì c’era il silenzio infinito e, ad un tratto, in un angolo nascosto, immerso nella natura, visto da lontano, non riconosciuto se non quando potevo toccarlo con mano, devo aver creduto che la vita era eterna, perché la morte era, tra quei nomi, con naturalezza parte della vita. C’era qualcosa di perfetto in quel luogo di riposo eterno. Ho sempre fatto fatica a parlare e scrivere di morte, perché per sentire vivi i morti, fin da piccola, non dovevo vederli morti. Penso a come potrebbe essere il sole adesso, a Novembre, se tornassi nell’isola. Qui gli alberi stanno diventando arancioni, rossi, gialli, marroni. Bagnati dalla pioggia. Perderanno le foglie, lasceranno vedere oltre. La vita.

30 ottobre 2008

INCERTEZZE

Il mare devi conquistartelo. Una lunga serie di gradini a strapiombo sull’acqua. I tornanti che cambiano la direzione del vento sul viso. Sono percorsi che permettono di non escludere nulla, che tornano a nascondere per poi riscoprire. L’immagine è in continuo movimento, cambia anche per un solo dettaglio, a volte impercettibile. Ogni passo verso il basso amplia il mondo. Si arriva ad un punto in cui terra, cielo, acqua, riescono ad essere immensi, bastevoli.
Poi la vista comincia a restringersi.
Si giunge in fondo, tra la sabbia e le onde.
È lo spettacolo che perdi, proprio quando pensi di averlo conquistato.